La musica sarda è difficile da suonare, soprattutto perchè si tratta di una musicalità gutturale, ruvida, spigolosa. Ecco, devo fare riscorso a metafore altrimenti non saprei come definirla...
Per questo motivo, forse, ho sempre sentito suonare questa musica solo da suonatori sardi, insomma, ci devi essere nato dentro. E ancora più difficile è trovare in giro, intendo nel giro dell'organetto, spartiti e tablature di musica sarda. Ciò provoca la disperazione degli stessi sardi che vorrebbero imparare dal pentagramma alcune musiche popolari.
Finalmente ora qualcuno ha coraggiosamente deciso di mettersi a tavolino e trascrivere alcuni brani. Qualche rara, rarissima partitura di musica sarda per organetto si può trovare oggi nella sezione "file" del gruppo di discussione In Sol Do, grazie all'opera di Bruno.
Quindi, grazie Bruno! Aiò!
martedì 27 febbraio 2007
sabato 24 febbraio 2007
Una sera con Franca Rame
Sto suonando, insieme a Cristina Majnero al clarinetto e a David Medina al contrabbasso, le musiche di uno spettacolo teatrale molto bello di cui ho già scritto sul blog.
Lo spettacolo ha avuto un grande successo, ogni sera c'è il tutto esaurito e ci hanno prorogato fino all'11 marzo. Poi ogni sera capita tra il pubblico qualche presenza inaspettata quanto gradita. Ieri sera c'era Franca Rame che si è complimentata e con la quale ho avuto una interessante conversazione su un tema drammatico: la contaminazione da uranio impoverito che ha ucciso 45 militari italiani, nel totale silenzio delle istituzioni italiane, e ne ha ammalati altri 512.
Dato che finire il post qui mi sembrava triste, aggiungo ancora qualcosa.
Avendo vissuto lo spettacolo già una quindicina di volte, mi è venuta voglia di scriverne una recensione, pubblicata ieri dal Riformista. Eccola qui dui seguito.
Quando il teatro è questione di cervello
Di Gianni Ventola Danese
Pubblicato su "Il Riformista" del 23/2/2007
Riempie i teatri la storia di Giovanni Passannante. E non è una storia lontana dal nostro mondo e dal nostro tempo. Nonostante le parole e gli accadimenti risalgano al 1878. La storia di Giovanni Passannante non è ancora conclusa. Ed è il teatro, che paradossalmente le storie le perpetua, a chiedere che si metta la parola fine alla vicenda di un anarchico lucano, semplicemente, con la sua sepoltura. Ulderico Pesce è un attore di razza, uno impegnato, uno engagée, come si dice. I suoi monologhi scendono nel cuore vivo della cronaca e ne risalgono con parole vere, concitate in un profluvio ritmico narrativo capace di fare una cosa in cui pochi riescono: raccontare la realtà. In modo forte, toccando temi forti.
Sembra quasi che la storia sia solo un pretesto, quasi passa in secondo piano la vicenda di Passannante che a Napoli, il 17 novembre 1878, armato di un coltellino, tentò di assalire re Umberto I di Savoia, riuscendo solo a sfregiargli una gamba. Per questo venne arrestato, torturato, condotto attraverso un processo farsa e poi incarcerato a vita in condizioni disumane. Divenne cieco, si ammalò, i muscoli gli si atrofizzarono, infine la pazzia. Scontò gli ultimi anni della sua esistenza in un ospedale psichiatrico dove si spense nel 1910.
La morte non bastò. Fu decapitato, il corpo dato in pasto ai cani, il cranio e il cervello, in ossequio alle teorie del Lombroso, divennero oggetti da esposizione presso il museo criminologico di Roma. Oggi, con due euro, è ancora possibile ammirare i “reperti scientifici”. Da alcuni anni un nulla osta del Ministero della Giustizia permetterebbe la sepoltura dei poveri resti, ma finora l’inazione ha trovato l’italica complicità di burocrazia e opportunismo politico. Ancora per molto?
Recarsi oggi al museo criminologico significa provare una strana sensazione. Perché quel cervello è divenuto un simbolo. Il simbolo delle idee. Delle utopie, forse. Per questo non è di destra, non è di sinistra. L’idea di libertà è in ogni essere umano e in quella teca colma di formalina ci siamo anche noi. Le nostre speranze, le nostre aspirazioni, qualsiasi esse siano. Idee molto simili a quelle di Passannante mossero Giovanni Pascoli ad avvicinarsi agli ambienti socialisti, a scendere in piazza in difesa dell’attentatore e poi addirittura a dedicargli un’ode. Con la sua berretta rossa / ne faremo una bandiera. Solo questi due versi sono arrivati fino a noi. Per questo Pascoli fu arrestato, incarcerato e costretto a distruggere il testo.
Portare la tortura in scena non è da tutti. Il Passannante torturato è una figura tragica e allo stesso tempo, purtroppo, attuale. La scena è intensa, quasi pulp, d’improvviso la sala ammutolisce. Solo uno tra i tanti fili conduttori che si possono tirare. Quando l’ultimo caso di tortura in Italia? C’è un processo in corso per i fatti di Bolzaneto del 2001. Non a caso in scena Ulderico Pesce è un carabiniere coinvolto nei fatti di Genova. Colui che ha il compito di sorvegliare il museo e di mantenere il livello giusto della formalina che conserva il cervello di Passannante. Un incarico punitivo per aver fatto qualcosa di sbagliato, proprio a Genova nel 2001.
Sarà un incontro a cambiare la vita del carabiniere. Un incontro che porta in scena una storia d’amore per certi versi “scandalosa” tra i due poli opposti di una tragica vicenda che il destino decide di mettere in contatto. Il carabiniere e Lucia, entrambi vittime. Entrambi con un segreto. Saranno loro a riscoprire il senso della pietà.
Temi alti, difficili, che trovano nel finale una sorta di estuario narrativo nell’improvvisa apparizione di Antigone. Sintesi tra libertà e legge, tra natura e cultura. Per questo, alla fine, dopo aver anche sorriso, ci si accorge che il teatro di Pesce è un teatro essenzialmente di pensiero, quasi filosofico, che parlando facile, il più delle volte con slang lucano, arriva dritto alle questioni fondamentali. Una fra tutte. Che il rispetto per i morti è solo una delle tante declinazioni del rispetto per l’altro. Al teatro Cometa Off di Roma fino all'11 marzo.
Lo spettacolo ha avuto un grande successo, ogni sera c'è il tutto esaurito e ci hanno prorogato fino all'11 marzo. Poi ogni sera capita tra il pubblico qualche presenza inaspettata quanto gradita. Ieri sera c'era Franca Rame che si è complimentata e con la quale ho avuto una interessante conversazione su un tema drammatico: la contaminazione da uranio impoverito che ha ucciso 45 militari italiani, nel totale silenzio delle istituzioni italiane, e ne ha ammalati altri 512.
Dato che finire il post qui mi sembrava triste, aggiungo ancora qualcosa.
Avendo vissuto lo spettacolo già una quindicina di volte, mi è venuta voglia di scriverne una recensione, pubblicata ieri dal Riformista. Eccola qui dui seguito.
Quando il teatro è questione di cervello
Di Gianni Ventola Danese
Pubblicato su "Il Riformista" del 23/2/2007
Riempie i teatri la storia di Giovanni Passannante. E non è una storia lontana dal nostro mondo e dal nostro tempo. Nonostante le parole e gli accadimenti risalgano al 1878. La storia di Giovanni Passannante non è ancora conclusa. Ed è il teatro, che paradossalmente le storie le perpetua, a chiedere che si metta la parola fine alla vicenda di un anarchico lucano, semplicemente, con la sua sepoltura. Ulderico Pesce è un attore di razza, uno impegnato, uno engagée, come si dice. I suoi monologhi scendono nel cuore vivo della cronaca e ne risalgono con parole vere, concitate in un profluvio ritmico narrativo capace di fare una cosa in cui pochi riescono: raccontare la realtà. In modo forte, toccando temi forti.
Sembra quasi che la storia sia solo un pretesto, quasi passa in secondo piano la vicenda di Passannante che a Napoli, il 17 novembre 1878, armato di un coltellino, tentò di assalire re Umberto I di Savoia, riuscendo solo a sfregiargli una gamba. Per questo venne arrestato, torturato, condotto attraverso un processo farsa e poi incarcerato a vita in condizioni disumane. Divenne cieco, si ammalò, i muscoli gli si atrofizzarono, infine la pazzia. Scontò gli ultimi anni della sua esistenza in un ospedale psichiatrico dove si spense nel 1910.
La morte non bastò. Fu decapitato, il corpo dato in pasto ai cani, il cranio e il cervello, in ossequio alle teorie del Lombroso, divennero oggetti da esposizione presso il museo criminologico di Roma. Oggi, con due euro, è ancora possibile ammirare i “reperti scientifici”. Da alcuni anni un nulla osta del Ministero della Giustizia permetterebbe la sepoltura dei poveri resti, ma finora l’inazione ha trovato l’italica complicità di burocrazia e opportunismo politico. Ancora per molto?
Recarsi oggi al museo criminologico significa provare una strana sensazione. Perché quel cervello è divenuto un simbolo. Il simbolo delle idee. Delle utopie, forse. Per questo non è di destra, non è di sinistra. L’idea di libertà è in ogni essere umano e in quella teca colma di formalina ci siamo anche noi. Le nostre speranze, le nostre aspirazioni, qualsiasi esse siano. Idee molto simili a quelle di Passannante mossero Giovanni Pascoli ad avvicinarsi agli ambienti socialisti, a scendere in piazza in difesa dell’attentatore e poi addirittura a dedicargli un’ode. Con la sua berretta rossa / ne faremo una bandiera. Solo questi due versi sono arrivati fino a noi. Per questo Pascoli fu arrestato, incarcerato e costretto a distruggere il testo.
Portare la tortura in scena non è da tutti. Il Passannante torturato è una figura tragica e allo stesso tempo, purtroppo, attuale. La scena è intensa, quasi pulp, d’improvviso la sala ammutolisce. Solo uno tra i tanti fili conduttori che si possono tirare. Quando l’ultimo caso di tortura in Italia? C’è un processo in corso per i fatti di Bolzaneto del 2001. Non a caso in scena Ulderico Pesce è un carabiniere coinvolto nei fatti di Genova. Colui che ha il compito di sorvegliare il museo e di mantenere il livello giusto della formalina che conserva il cervello di Passannante. Un incarico punitivo per aver fatto qualcosa di sbagliato, proprio a Genova nel 2001.
Sarà un incontro a cambiare la vita del carabiniere. Un incontro che porta in scena una storia d’amore per certi versi “scandalosa” tra i due poli opposti di una tragica vicenda che il destino decide di mettere in contatto. Il carabiniere e Lucia, entrambi vittime. Entrambi con un segreto. Saranno loro a riscoprire il senso della pietà.
Temi alti, difficili, che trovano nel finale una sorta di estuario narrativo nell’improvvisa apparizione di Antigone. Sintesi tra libertà e legge, tra natura e cultura. Per questo, alla fine, dopo aver anche sorriso, ci si accorge che il teatro di Pesce è un teatro essenzialmente di pensiero, quasi filosofico, che parlando facile, il più delle volte con slang lucano, arriva dritto alle questioni fondamentali. Una fra tutte. Che il rispetto per i morti è solo una delle tante declinazioni del rispetto per l’altro. Al teatro Cometa Off di Roma fino all'11 marzo.
mercoledì 21 febbraio 2007
Chiedere la grazia suonando e... bestemmiando
Un rito antichissimo che si perde nella notte dei tempi, si ripete ogni anno, e ha a che fare con la musica popolare. Ho scritto questo articolo per una mostra fotografia sul pellegrinaggio di Vallepietra, nel Lazio. Dopo aver visto le foto, devo assolutamente andarci...
Vallepietra. Storia di un pellegrinaggio eretico
Una mostra fotografica per documentare un misterioso culto del Centroitalia
Di Gianni Ventola Danese
Pubblicato su "Liberazione" del 4/2/2007
Si tramanda in Italia, nei Monti Simbruini ai confini tra Lazio e Abruzzo, un rito, un culto, un pellegrinaggio. È quello dedicato alla cosiddetta “Santissima”, o alle “Treppe” per usare una locuzione radicata nella memoria popolare. Ogni anno, la domenica dopo Pentecoste, sempre a cavallo di una notte di plenilunio, accade qualcosa di straordinario la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Non è ancora chiaro cosa accadde in questo luogo, migliaia di anni fa, chi o cosa si manifestò, quale fu l’origine di un rito arcaico e misterioso, ma una cosa è certa, quel posto c’è ancora ed è rimasto uguale, o quasi, a come lo si poteva vedere migliaia di anni fa. È una parete di roccia che si apre sul fianco meridionale del monte Autore (mt. 1853), vertiginosa, trecento metri di roccia strapiombante che farebbero la felicità di qualsiasi appassionato di free-climbing, alla cui base, lungo una sottile cengia, si trovano alcune piccole grotte. Ciò che si venera si trova in uno di quegli antri.
All’inizio non sembra una grotta. Ciò che si vede è soltanto la piccola facciata di una modesta chiesetta, un santuario, il cui corpo affonda nella roccia bianca della parete. Ma l’interno di quella minuscola cattedrale engloutie è la nuda roccia della montagna. Qui appare un affresco antichissimo, dipinto intorno al 1150 d.C, raffigurante una Santissima Trinità molto particolare, perché composta da tre figure identiche, sedute e benedicenti alla maniera greca.
Sono 30mila i pellegrini che in quella notte di plenilunio si recano a rendere omaggio a questa icona eretica. Perché di questo si tratta. La Chiesa ufficiale non ha mai riconosciuto il rito, né l’immagine sacra della Trinità di Vallepietra così distante da quella ufficiale. La Chiesa, piuttosto, si è sempre limitata ad assecondare e in qualche modo a gestire quello che ancora oggi si presenta come il più grande pellegrinaggio eretico d’Italia.
Un pellegrinaggio che è cambiato nella storia e che soprattutto è ora documentato attraverso una lunga serie di scatti esposti fino al 18 febbraio presso L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i beni e le Attività Culturali, presso la suggestiva Chiesa delle Zitelle, in Via di San Michele a Ripa 18 (www.fedetradizione.it). Fotografie dal 1881 al 2006 che rappresentano non solo un prezioso lavoro di antropologia culturale a disposizione della comunità scientifica, ma anche una testimonianza visiva che in qualche modo interpreta e cerca di trovare il senso profondo di un evento che si ripete nei secoli.
Protagoniste dell’evento sono le compagnie dei pellegrini, gruppi assolutamente indipendenti dalla Chiesa (al contrario delle confraternite) che in completa autonomia si mobilitano per il rito. Le compagnie di pellegrini arrivano: dal Lazio, dagli Abruzzi, dal Molise, dalla Campania, la domenica dopo Pentecoste per la festa della Santissima Trinità e per quella di Sant’Anna (26 luglio), coi loro stendardi, le provviste per passare la notte, i sacchi a pelo, le coperte, donne, bambini, intere famiglie, le generazioni si intersecano come si sovrappongono i canti devozionali che ogni compagnia intona in precisi momenti del rito. Ed proprio questo uno degli aspetti più simbolici del pellegrinaggio la cui dimensione rituale, completamente autonoma, ha dato vita a una serie di rituali paraliturgici assai eterogenei. Ogni compagnia ha i suoi strumenti (come ad esempio le trombe della compagnia di Anagni), lo stesso canto può essere variato, modificato, le compagnie si competono il primato per fare emergere il proprio canto e il panorama sonoro che ne scaturisce è impressionante, quasi a ricordare le composizioni corali di Ligeti: pura esperienza mistica.
La festa è un culto notturno. All’imbrunire la montagna si accende di centinaia di fuochi, i pellegrini bivaccano, pregano, cantano, suonano i tipici strumenti della tradizione popolare: la zampogna, la fisarmonica, i fiati. Gli stretti e ripidi sentieri traboccano di anime. Molti rimangono giù a valle, si fermano nella chiesa parrocchiale di Vallepietra. Anche per le vie del paese si fa festa. La vigilia è suggellata da una processione e le vie del paese diventano dormitorio a cielo aperto per coloro che riprenderanno il cammino solo l’indomani.
Una volta raggiunto il santuario le compagnie, che si fanno distinguere per un fazzoletto che portano al collo, si ordinano sotto i loro vessilli, ed è ora che il canto si fa più forte, come un’onda monta e sommerge ogni cosa. Il transito davanti all’immagine sacra si fa a piedi scalzi, nudi, alcuni in ginocchio. Non vi è più contatto con la liturgia ufficiale, e la ritualità assume forme arcaiche che spesso hanno irritato le gerarchie ecclesiastiche. Tra questi comportamenti sopravvivono le richieste di grazia in forma radicale, a suon di insulti verso il santo, tra accessi isterici e spasmi.
Viva Viva sempre Viva / Quelle Tre Person Divine / Quelle Tre Person Divine / La Santissima Trinità. Questo il ritornello che si ripete in risposta a ogni strofa, come un mantra ipnotico ti entra dentro e ti accompagna per giorni e giorni. Perché? Perché anche chi non crede si emoziona fino alle lacrime? Perché accade tutto questo? Il rito termina con la rappresentazione della Passione di Cristo, detto il Pianto delle Zitelle, le giovani ragazze di Vallepietra, si tramandano il ruolo di generazione in generazione. Ma la carica di zitella si può ottenere anche per le doti vocali. Indossano tutte una veste bianca tranne una, la madonna, e intonano brevi arie dette misteri e, all’unisono a gruppi di tre, frammenti volgarizzati del Miserere.
Fede e tradizione si fondono, si sovrappongono, ciò che si faceva per fede ora forse lo si fa solo per tradizione, ma per molti l’itinerario è inverso. Come afferma Paola Elisabetta Simeoni, curatrice della mostra insieme al fotografo Angelo Palma, “le origini di questo rito si perdono a oriente, nei culti dedicati a Iside e Osiride, forse addirittura in un rito semitico. Ci sono tutti gli elementi di un rito antichissimo, la triade, la percezione femminile, il culto verso una Grande Madre Terra, aspetti legati ai culti della vegetazione e dei defunti”.
Ma basta un secolo e mezzo di testimonianze fotografiche per capire come cambia nella storia un rito così antico. Molte di questi scatti sono inediti. Quelli di Cesare Pascarella, rinvenuti in un Fondo custodito dall’Accademia dei Lincei. Quelli di Emilio Cecchi, critico letterario fondatore della “Ronda”, pubblicati solo nel 1934. E poi ci sono le foto di Luciano Morpurgo, già note ma solo nell’ambito della ricerca etnografica, e quelle provenienti dall’Archivio del Club Alpino Romano, datate fine Ottocento e anch’esse inedite.
Infine, una sezione consistente è quella ripresa dal fotografo Angelo Palma. Sono fotografie recenti che vanno dal 2003 al 2006. Emerge da questi scatti anche l’aspetto meno spirituale del pellegrinaggio, fatto di centinaia di bancarelle, venditori ambulanti, comitive di boyscout, souvenir, il canto delle Zitelle trasformato in musical. “Vendono di tutto, c’è un grande business intorno all’evento, ci puoi trovare anche la bancarella che vende i busti di Mussolini e il vino etichettato Dux”, – afferma il fotografo Angelo Palma, ma poi aggiunge,- “mi fermai una volta chiedendo come andassero le vendite del vino mussoliniano, niente da fare, mi rispose il mercante, qui si vende solo il vino di Che Guevara, sono tutti comunisti!”.
Vallepietra. Storia di un pellegrinaggio eretico
Una mostra fotografica per documentare un misterioso culto del Centroitalia
Di Gianni Ventola Danese
Pubblicato su "Liberazione" del 4/2/2007
Si tramanda in Italia, nei Monti Simbruini ai confini tra Lazio e Abruzzo, un rito, un culto, un pellegrinaggio. È quello dedicato alla cosiddetta “Santissima”, o alle “Treppe” per usare una locuzione radicata nella memoria popolare. Ogni anno, la domenica dopo Pentecoste, sempre a cavallo di una notte di plenilunio, accade qualcosa di straordinario la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Non è ancora chiaro cosa accadde in questo luogo, migliaia di anni fa, chi o cosa si manifestò, quale fu l’origine di un rito arcaico e misterioso, ma una cosa è certa, quel posto c’è ancora ed è rimasto uguale, o quasi, a come lo si poteva vedere migliaia di anni fa. È una parete di roccia che si apre sul fianco meridionale del monte Autore (mt. 1853), vertiginosa, trecento metri di roccia strapiombante che farebbero la felicità di qualsiasi appassionato di free-climbing, alla cui base, lungo una sottile cengia, si trovano alcune piccole grotte. Ciò che si venera si trova in uno di quegli antri.
All’inizio non sembra una grotta. Ciò che si vede è soltanto la piccola facciata di una modesta chiesetta, un santuario, il cui corpo affonda nella roccia bianca della parete. Ma l’interno di quella minuscola cattedrale engloutie è la nuda roccia della montagna. Qui appare un affresco antichissimo, dipinto intorno al 1150 d.C, raffigurante una Santissima Trinità molto particolare, perché composta da tre figure identiche, sedute e benedicenti alla maniera greca.
Sono 30mila i pellegrini che in quella notte di plenilunio si recano a rendere omaggio a questa icona eretica. Perché di questo si tratta. La Chiesa ufficiale non ha mai riconosciuto il rito, né l’immagine sacra della Trinità di Vallepietra così distante da quella ufficiale. La Chiesa, piuttosto, si è sempre limitata ad assecondare e in qualche modo a gestire quello che ancora oggi si presenta come il più grande pellegrinaggio eretico d’Italia.
Un pellegrinaggio che è cambiato nella storia e che soprattutto è ora documentato attraverso una lunga serie di scatti esposti fino al 18 febbraio presso L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i beni e le Attività Culturali, presso la suggestiva Chiesa delle Zitelle, in Via di San Michele a Ripa 18 (www.fedetradizione.it). Fotografie dal 1881 al 2006 che rappresentano non solo un prezioso lavoro di antropologia culturale a disposizione della comunità scientifica, ma anche una testimonianza visiva che in qualche modo interpreta e cerca di trovare il senso profondo di un evento che si ripete nei secoli.
Protagoniste dell’evento sono le compagnie dei pellegrini, gruppi assolutamente indipendenti dalla Chiesa (al contrario delle confraternite) che in completa autonomia si mobilitano per il rito. Le compagnie di pellegrini arrivano: dal Lazio, dagli Abruzzi, dal Molise, dalla Campania, la domenica dopo Pentecoste per la festa della Santissima Trinità e per quella di Sant’Anna (26 luglio), coi loro stendardi, le provviste per passare la notte, i sacchi a pelo, le coperte, donne, bambini, intere famiglie, le generazioni si intersecano come si sovrappongono i canti devozionali che ogni compagnia intona in precisi momenti del rito. Ed proprio questo uno degli aspetti più simbolici del pellegrinaggio la cui dimensione rituale, completamente autonoma, ha dato vita a una serie di rituali paraliturgici assai eterogenei. Ogni compagnia ha i suoi strumenti (come ad esempio le trombe della compagnia di Anagni), lo stesso canto può essere variato, modificato, le compagnie si competono il primato per fare emergere il proprio canto e il panorama sonoro che ne scaturisce è impressionante, quasi a ricordare le composizioni corali di Ligeti: pura esperienza mistica.
La festa è un culto notturno. All’imbrunire la montagna si accende di centinaia di fuochi, i pellegrini bivaccano, pregano, cantano, suonano i tipici strumenti della tradizione popolare: la zampogna, la fisarmonica, i fiati. Gli stretti e ripidi sentieri traboccano di anime. Molti rimangono giù a valle, si fermano nella chiesa parrocchiale di Vallepietra. Anche per le vie del paese si fa festa. La vigilia è suggellata da una processione e le vie del paese diventano dormitorio a cielo aperto per coloro che riprenderanno il cammino solo l’indomani.
Una volta raggiunto il santuario le compagnie, che si fanno distinguere per un fazzoletto che portano al collo, si ordinano sotto i loro vessilli, ed è ora che il canto si fa più forte, come un’onda monta e sommerge ogni cosa. Il transito davanti all’immagine sacra si fa a piedi scalzi, nudi, alcuni in ginocchio. Non vi è più contatto con la liturgia ufficiale, e la ritualità assume forme arcaiche che spesso hanno irritato le gerarchie ecclesiastiche. Tra questi comportamenti sopravvivono le richieste di grazia in forma radicale, a suon di insulti verso il santo, tra accessi isterici e spasmi.
Viva Viva sempre Viva / Quelle Tre Person Divine / Quelle Tre Person Divine / La Santissima Trinità. Questo il ritornello che si ripete in risposta a ogni strofa, come un mantra ipnotico ti entra dentro e ti accompagna per giorni e giorni. Perché? Perché anche chi non crede si emoziona fino alle lacrime? Perché accade tutto questo? Il rito termina con la rappresentazione della Passione di Cristo, detto il Pianto delle Zitelle, le giovani ragazze di Vallepietra, si tramandano il ruolo di generazione in generazione. Ma la carica di zitella si può ottenere anche per le doti vocali. Indossano tutte una veste bianca tranne una, la madonna, e intonano brevi arie dette misteri e, all’unisono a gruppi di tre, frammenti volgarizzati del Miserere.
Fede e tradizione si fondono, si sovrappongono, ciò che si faceva per fede ora forse lo si fa solo per tradizione, ma per molti l’itinerario è inverso. Come afferma Paola Elisabetta Simeoni, curatrice della mostra insieme al fotografo Angelo Palma, “le origini di questo rito si perdono a oriente, nei culti dedicati a Iside e Osiride, forse addirittura in un rito semitico. Ci sono tutti gli elementi di un rito antichissimo, la triade, la percezione femminile, il culto verso una Grande Madre Terra, aspetti legati ai culti della vegetazione e dei defunti”.
Ma basta un secolo e mezzo di testimonianze fotografiche per capire come cambia nella storia un rito così antico. Molte di questi scatti sono inediti. Quelli di Cesare Pascarella, rinvenuti in un Fondo custodito dall’Accademia dei Lincei. Quelli di Emilio Cecchi, critico letterario fondatore della “Ronda”, pubblicati solo nel 1934. E poi ci sono le foto di Luciano Morpurgo, già note ma solo nell’ambito della ricerca etnografica, e quelle provenienti dall’Archivio del Club Alpino Romano, datate fine Ottocento e anch’esse inedite.
Infine, una sezione consistente è quella ripresa dal fotografo Angelo Palma. Sono fotografie recenti che vanno dal 2003 al 2006. Emerge da questi scatti anche l’aspetto meno spirituale del pellegrinaggio, fatto di centinaia di bancarelle, venditori ambulanti, comitive di boyscout, souvenir, il canto delle Zitelle trasformato in musical. “Vendono di tutto, c’è un grande business intorno all’evento, ci puoi trovare anche la bancarella che vende i busti di Mussolini e il vino etichettato Dux”, – afferma il fotografo Angelo Palma, ma poi aggiunge,- “mi fermai una volta chiedendo come andassero le vendite del vino mussoliniano, niente da fare, mi rispose il mercante, qui si vende solo il vino di Che Guevara, sono tutti comunisti!”.
lunedì 19 febbraio 2007
Ma quale antiamericanismo?
Oggi scrivo a cavallo tra musica e politica, ma sì!
Mi scrive Pat Jasper. E voi direte chi è? E' il direttore di un festival internazionale di fisarmonica, e il fatto è che dalle sue parti poi la fisarmonica che va di più è quella diatonica, insomma, l'organetto, come diciamo qui in Italia.
Il festival è parecchio importante e si svolge negli Stati Uniti, a La Villita, San Antonio, Texas. Proprio in questi giorni per i fatti di Vicenza un noto genio politico ha parlato (come al solito a sproposito) di un presupposto antiamericanismo.
Solo che poi le agenzie stampa rimbalzano tutto dall'altra parte dell'oceano e c'è il rischio che a passare sia il messaggio sbagliato. Quindi vorrei rassicurare Pat dalle pagine di questo blog. Non è vero!!! Vi vogliamo bene!!!
A me, come alla maggiorparte degli italiani, gli americani sono simpatici. Solo che alle volte facciamo l'errore di confonderli coi loro governanti. Purtroppo lo stesso accade all'estero con gli italiani.
Insomma, ho dato una scorsa al calendario dell'edizione del festival de La Villita dell'anno scorso, e ho visto che hanno fatto un sacco di belle cose... hanno invitato musicisti dalla Polonia e dalla Cina! L'edizione 2007 si terrà dal 12 al 14 ottobre.
Quasi quasi mi faccio invitare...
p.s. a proposito, una cosa degli Stati Uniti che mi piace è che in Parlamento chi è stato condannato in via definitiva non ci può stare, sarebbe di cattivo esempio. Mentre da noi in Italia...
Mi scrive Pat Jasper. E voi direte chi è? E' il direttore di un festival internazionale di fisarmonica, e il fatto è che dalle sue parti poi la fisarmonica che va di più è quella diatonica, insomma, l'organetto, come diciamo qui in Italia.
Il festival è parecchio importante e si svolge negli Stati Uniti, a La Villita, San Antonio, Texas. Proprio in questi giorni per i fatti di Vicenza un noto genio politico ha parlato (come al solito a sproposito) di un presupposto antiamericanismo.
Solo che poi le agenzie stampa rimbalzano tutto dall'altra parte dell'oceano e c'è il rischio che a passare sia il messaggio sbagliato. Quindi vorrei rassicurare Pat dalle pagine di questo blog. Non è vero!!! Vi vogliamo bene!!!
A me, come alla maggiorparte degli italiani, gli americani sono simpatici. Solo che alle volte facciamo l'errore di confonderli coi loro governanti. Purtroppo lo stesso accade all'estero con gli italiani.
Insomma, ho dato una scorsa al calendario dell'edizione del festival de La Villita dell'anno scorso, e ho visto che hanno fatto un sacco di belle cose... hanno invitato musicisti dalla Polonia e dalla Cina! L'edizione 2007 si terrà dal 12 al 14 ottobre.
Quasi quasi mi faccio invitare...
p.s. a proposito, una cosa degli Stati Uniti che mi piace è che in Parlamento chi è stato condannato in via definitiva non ci può stare, sarebbe di cattivo esempio. Mentre da noi in Italia...
giovedì 15 febbraio 2007
Andy Cutting è masochista?
Gli organettisti e le organettiste sono persone particolari, certamente qualche problema devono avercelo per aver scelto questo strumento. Io capisco tante cose, ma questa proprio no. Quale? Questa.
Perchè tablare così questo fraseggio? cosa abbiamo fatto di male?
Il seguente passaggio si può suonare logicamente quasi tutto in apertura di mantice ma, come si può vedere, è stato tablato tutto in aprire e in chiudere (P sta per premere, e T sta per tirare), costringendo l'esecutore a una faticaccia tremenda. Va da sè che la fluidità nel canto va a farsi benedire.
Anche se, come sostengono i Talebani della smanticiata, il famoso "gioco di mantice" alle volte ha una sua valenza espressiva (tipica dell'organetto, è vero) qui non rappresenta invece una scelta delle più felici. Sia per la modulazione che attraversa la frase (FA/RE-/SOL), sia per la particolare frase melodica che - lo si capisce dal suo disegno - va fatta cantare, sembra scritta da Bach. Non puoi farla singhiozzare in un apri/chiudi di 15 note!
A meno che... voi non siate masochisti.
Il brano è tratto da The Walled Garden, un valzer di Andy Cutting contenuto nell'album Panic at the Café. Costruttivamente è perfetto, bilanciato, allegro, una melodia scolpita nel marmo, Lo ascolti e non puoi fare a meno di pensare sconsolato: "perchè non l'ho scritto io?".
Ho riascoltato il cd per verificare se anche Andy Cutting non fosse stato colpito anche lui nel lontano 1993 (anno di pubblicazione dell'album) da una improvvisa crisi di masochismo autopunitivo. Mi è bastato ascoltare quel passaggio alcune volte per avere la risposta.
Andy Cutting non è masochista.
Perchè tablare così questo fraseggio? cosa abbiamo fatto di male?
Il seguente passaggio si può suonare logicamente quasi tutto in apertura di mantice ma, come si può vedere, è stato tablato tutto in aprire e in chiudere (P sta per premere, e T sta per tirare), costringendo l'esecutore a una faticaccia tremenda. Va da sè che la fluidità nel canto va a farsi benedire.
Anche se, come sostengono i Talebani della smanticiata, il famoso "gioco di mantice" alle volte ha una sua valenza espressiva (tipica dell'organetto, è vero) qui non rappresenta invece una scelta delle più felici. Sia per la modulazione che attraversa la frase (FA/RE-/SOL), sia per la particolare frase melodica che - lo si capisce dal suo disegno - va fatta cantare, sembra scritta da Bach. Non puoi farla singhiozzare in un apri/chiudi di 15 note!
A meno che... voi non siate masochisti.
Il brano è tratto da The Walled Garden, un valzer di Andy Cutting contenuto nell'album Panic at the Café. Costruttivamente è perfetto, bilanciato, allegro, una melodia scolpita nel marmo, Lo ascolti e non puoi fare a meno di pensare sconsolato: "perchè non l'ho scritto io?".
Ho riascoltato il cd per verificare se anche Andy Cutting non fosse stato colpito anche lui nel lontano 1993 (anno di pubblicazione dell'album) da una improvvisa crisi di masochismo autopunitivo. Mi è bastato ascoltare quel passaggio alcune volte per avere la risposta.
Andy Cutting non è masochista.
mercoledì 14 febbraio 2007
Per un san Valentino sostenibile
San Valentino! Si può fare un regalo bello, emozionante, un regalo magari ecosostenibile, a basso impatto ambientale, capace di provocare l'unico riscaldamento globale che ci interessa, quello del cuoricino della nostra compagna?
Secondo me sì! Siamo ancora in tempo!
Sfoderiamo l'organetto, e andiamo di corsa a studiare The bay tree, un bellissimo valzer di Andy Cutting, io ce l'ho nell'album Panic at the Cafè. Il pezzo più romantico che io conosca.
Volete ascoltarlo? Eccolo qui. La partitura invece la trovate qui.
Chissà... magari con 'sto post risollevo le sorti di qualche coppia in crisi...
Buona fortuna!
Secondo me sì! Siamo ancora in tempo!
Sfoderiamo l'organetto, e andiamo di corsa a studiare The bay tree, un bellissimo valzer di Andy Cutting, io ce l'ho nell'album Panic at the Cafè. Il pezzo più romantico che io conosca.
Volete ascoltarlo? Eccolo qui. La partitura invece la trovate qui.
Chissà... magari con 'sto post risollevo le sorti di qualche coppia in crisi...
Buona fortuna!
lunedì 12 febbraio 2007
Bruno Le Tron e il Web 2.0
Web 2, la vendetta? Ma cos'è 'sto Web 2? Semplicemente una definizione che ha avuto successo. L'ha inventata la statunitense O'Reilly Media per descrivere la seconda fase del Web, un po' come in Italia ci siamo inventati la seconda repubblica per definire il dopo mani pulite.
La seconda versione del Web sarà, anzi lo è già, un ambiente connotato da un alta densità di siti e servizi a finalità sociale, dove sempre più spesso i contenuti saranno forniti dagli utenti stessi. Insomma, un immenso ambiente sociale dove mettere in comune conoscenza. Fantastico! Peccato che il digital divide tagli fuori da tutto ciò metà del pianeta.
Cosa c'entra l'organetto? C'entra. Cercavo per una mia allieva un valzer, che lei aveva ascoltato di sfuggita in un video di YouTube, ma sapeva solo il titolo e il compositore: Zonzon del belga Bruno Le Tron. Scopro in rete che è tratto dall'album Valhermeil, ma mi risulta impossibile trovare il cd nei negozi, su emule o in rete. Che fare?
Vado a chiedere aiuto nel gruppo di discussione francese dedicato all'organetto. Scrivo un breve messaggio, pigio "invia" e attendo. Dopo poche ore Alain mi invia l'mp3! Evvai! Passa una mezz'ora e ricevo da Sylvie la tablatura! Grande! Poi Thomas mi informa che l'album è stato completamente trascritto in tablatura da Michel Corgeron e pubblicato da TradMagazine. E mi manda il tutto in pdf.
Che dire? Questo è il Web 2.
La seconda versione del Web sarà, anzi lo è già, un ambiente connotato da un alta densità di siti e servizi a finalità sociale, dove sempre più spesso i contenuti saranno forniti dagli utenti stessi. Insomma, un immenso ambiente sociale dove mettere in comune conoscenza. Fantastico! Peccato che il digital divide tagli fuori da tutto ciò metà del pianeta.
Cosa c'entra l'organetto? C'entra. Cercavo per una mia allieva un valzer, che lei aveva ascoltato di sfuggita in un video di YouTube, ma sapeva solo il titolo e il compositore: Zonzon del belga Bruno Le Tron. Scopro in rete che è tratto dall'album Valhermeil, ma mi risulta impossibile trovare il cd nei negozi, su emule o in rete. Che fare?
Vado a chiedere aiuto nel gruppo di discussione francese dedicato all'organetto. Scrivo un breve messaggio, pigio "invia" e attendo. Dopo poche ore Alain mi invia l'mp3! Evvai! Passa una mezz'ora e ricevo da Sylvie la tablatura! Grande! Poi Thomas mi informa che l'album è stato completamente trascritto in tablatura da Michel Corgeron e pubblicato da TradMagazine. E mi manda il tutto in pdf.
Che dire? Questo è il Web 2.
sabato 10 febbraio 2007
Se il teatro è questione di cervello
Vi parlerò un'altra volta di una "piccola orchestra", per ora mi limito a invitarvi al teatro Cometa Off di Roma, dal 13 al 25 febbraio, per saperne di più sulla storia di Passannante...
C’era una volta un paese in Basilicata che si chiamava Salvia dove era nato un uomo: Giovanni Passannante.
Nel 1878 con un coltellino con una lama di quattro dita attentò alla regale vita di un signore torinese, un tale Umberto I di Savoia.
Condannato a morte, la pena gli fu convertita in ergastolo mentre sua madre e i suoi fratelli furono immediatamente internati nel manicomio di Aversa.
Passannante fu rinchiuso in una torre sull’isola d’Elba in una cella alta un metro e mezzo, al buio, senza finestre sotto il livello del mare dove fu isolato per dodici anni.
A causa delle sue condizioni di salute fu poi trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910. Grazie alle geniali teorie di Lombroso al cadavere fu tagliata la testa. Il cranio e il cervello esposti nel Museo Criminologico di Roma dove ancora oggi possono essere “ammirati” pagando due euro. Quel paese si chiamava Salvia, ma fu ribattezzato “Savoia di Lucania”.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perchè è una bella storia portata in scena da Ulderico Pesce e musicata per l'occasione dalla Piccola Orchestra Danese, cioè da me insieme a David Medina al contrabbasso e a Cristina Majnero al clarinetto.
C'è una petizione da firmare perchè si possano finalmente restituire alla terra i resti di questo uomo sfortunato, certo, ma coraggioso. Vedi anche l'articolo di Repubblica.
C’era una volta un paese in Basilicata che si chiamava Salvia dove era nato un uomo: Giovanni Passannante.
Nel 1878 con un coltellino con una lama di quattro dita attentò alla regale vita di un signore torinese, un tale Umberto I di Savoia.
Condannato a morte, la pena gli fu convertita in ergastolo mentre sua madre e i suoi fratelli furono immediatamente internati nel manicomio di Aversa.
Passannante fu rinchiuso in una torre sull’isola d’Elba in una cella alta un metro e mezzo, al buio, senza finestre sotto il livello del mare dove fu isolato per dodici anni.
A causa delle sue condizioni di salute fu poi trasferito in un manicomio criminale dove morì nel 1910. Grazie alle geniali teorie di Lombroso al cadavere fu tagliata la testa. Il cranio e il cervello esposti nel Museo Criminologico di Roma dove ancora oggi possono essere “ammirati” pagando due euro. Quel paese si chiamava Salvia, ma fu ribattezzato “Savoia di Lucania”.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perchè è una bella storia portata in scena da Ulderico Pesce e musicata per l'occasione dalla Piccola Orchestra Danese, cioè da me insieme a David Medina al contrabbasso e a Cristina Majnero al clarinetto.
C'è una petizione da firmare perchè si possano finalmente restituire alla terra i resti di questo uomo sfortunato, certo, ma coraggioso. Vedi anche l'articolo di Repubblica.
venerdì 9 febbraio 2007
Parola di Marc!
Lui è Marc Perrone, insomma una leggenda dell'organetto. Insieme a Mario Castagnari, ha contribuito con la sua inventiva e col suo talento musicale a trovare nuove soluzioni costruttive per gli organetti.
Perchè prima gli organetti non ce li avevano tutti quei tasti, erano più semplici. Da due a tre, e poi addirittura a quattro file. Per non parlare dei bassi...
Ne suona uno a quattro file, Perrone. E dato che Marc non mi sente (né mi legge), qui lo dico e qui lo nego: proprio non capisco chi suona questi cosi a quattro file.
Però ho trovato questa registrazione in cui Marc spiega i vantaggi di un quattro file, in francese. Se non altro è un documento, ma nemmeno la soave voce di Marc mi convince.
Perchè prima gli organetti non ce li avevano tutti quei tasti, erano più semplici. Da due a tre, e poi addirittura a quattro file. Per non parlare dei bassi...
Ne suona uno a quattro file, Perrone. E dato che Marc non mi sente (né mi legge), qui lo dico e qui lo nego: proprio non capisco chi suona questi cosi a quattro file.
Però ho trovato questa registrazione in cui Marc spiega i vantaggi di un quattro file, in francese. Se non altro è un documento, ma nemmeno la soave voce di Marc mi convince.
giovedì 8 febbraio 2007
Suoni l'organetto e poi...
Kimmo Pohjonen, quando l'ho scoperto ho pensato: questo è pazzo. Poi ho saputo che ha iniziato come organettista, e allora tutto mi è apparso chiaro.
Classe '64, Kimmo è finlandese e ha inventato un nuovo modo di suonare, considerare, trattare il suono della fisarmonica.
I suoi dischi sono vere esperienze mistiche, suono primordiale, sinfonie elettriche, sciamaniche, musica senza confini. Dalla musica folk è arrivato al Sonar di Barcellona, il festival mondiale della musica elettronica.
Uno dei suoi lavori che mi piacciono di più è Kalmuk, una sinfonia in un unico movimento, senza soluzione di continuità, con diversi momenti dove la fisarmonica si fonde con suoni d'orchestra e lancinanti timbriche elettroniche. Ascoltarla ad alto volume tutta d'un fiato vi cambierà la vita per sempre, ed è probabile che incrinerà fatalmente anche i rapporti coi vostri vicini di casa...
E' sempre stata la mia idea dell'organetto, per spingerlo oltre le pastoie della musica folclorica, solo che non c'ho i bicipiti di Kimmo... : )
Giudicate voi...
Classe '64, Kimmo è finlandese e ha inventato un nuovo modo di suonare, considerare, trattare il suono della fisarmonica.
I suoi dischi sono vere esperienze mistiche, suono primordiale, sinfonie elettriche, sciamaniche, musica senza confini. Dalla musica folk è arrivato al Sonar di Barcellona, il festival mondiale della musica elettronica.
Uno dei suoi lavori che mi piacciono di più è Kalmuk, una sinfonia in un unico movimento, senza soluzione di continuità, con diversi momenti dove la fisarmonica si fonde con suoni d'orchestra e lancinanti timbriche elettroniche. Ascoltarla ad alto volume tutta d'un fiato vi cambierà la vita per sempre, ed è probabile che incrinerà fatalmente anche i rapporti coi vostri vicini di casa...
E' sempre stata la mia idea dell'organetto, per spingerlo oltre le pastoie della musica folclorica, solo che non c'ho i bicipiti di Kimmo... : )
Giudicate voi...
mercoledì 7 febbraio 2007
Vestita a festa!
Che dire? sulle prime LynnMarie mi sembrava un po' buffa. Il suo fare alla Gianna Nannini male si accordava con quel pesante organetto stiriano a tracolla suonato con movenze che mi ricordavano quelle di Frank Zappa.
Poi mi sono reso conto che sta facendo una cosa pazzesca: legare insieme fisarmonica (in particolare l'organetto), bellezza, ritmi easy listenings, rythm'n blues quanto basta, una bella voce e due tradizioni, quella country statunitense e quella europea, slovena in particolare.
Non so quanto successo potrebbe avere in Italia un brano rock intitolato Smanticiami. Ma quello che ha fatto LynnMarie con Squeeze me è veramente divertente. Vedere per credere:
Nata a Cleveland all'interno della comunità slovena, ascoltava il papà suonare motivi popolari sloveni con l'organetto e ora col suo nuovo album Party Dress (il brano che da il titolo all'album è imperdibile!) si ritrova alla quarta nomination ai Grammy Awards.
Inutile dire che faccio il tifo per lei!
Poi mi sono reso conto che sta facendo una cosa pazzesca: legare insieme fisarmonica (in particolare l'organetto), bellezza, ritmi easy listenings, rythm'n blues quanto basta, una bella voce e due tradizioni, quella country statunitense e quella europea, slovena in particolare.
Non so quanto successo potrebbe avere in Italia un brano rock intitolato Smanticiami. Ma quello che ha fatto LynnMarie con Squeeze me è veramente divertente. Vedere per credere:
Nata a Cleveland all'interno della comunità slovena, ascoltava il papà suonare motivi popolari sloveni con l'organetto e ora col suo nuovo album Party Dress (il brano che da il titolo all'album è imperdibile!) si ritrova alla quarta nomination ai Grammy Awards.
Inutile dire che faccio il tifo per lei!
martedì 6 febbraio 2007
Lisippo e l'organetto
Chissà cosa ne direbbe Lisippo, proprio lui che questa statua l'ha fatta. Più o meno 2300 anni fa. Ora fa bella mostra di sè negli Stati Uniti. Acquistata sul mercato clandestino dal Metropolitan Museum di New York e dalla Fondazione Getty.
E le fisarmoniche allora? Dove sono state comprate? Prego indagare! Sì, perchè al Metropolitan Museum di New York è in mostra una vasta collezione di fisarmoniche e organetti d'epoca.
Rutelli si è precipitato in cantina per controllare che la fisarmonica di suo nonno fosse al suo posto...
Incredibile. L'esposizione ha avuto un tale successo di pubblico che invece di chiudere il 31 marzo come previsto, è stata prorogata fino al 9 settembre del 2007.
Insomma, chi passa da New York è avvisato...
E le fisarmoniche allora? Dove sono state comprate? Prego indagare! Sì, perchè al Metropolitan Museum di New York è in mostra una vasta collezione di fisarmoniche e organetti d'epoca.
Rutelli si è precipitato in cantina per controllare che la fisarmonica di suo nonno fosse al suo posto...
Incredibile. L'esposizione ha avuto un tale successo di pubblico che invece di chiudere il 31 marzo come previsto, è stata prorogata fino al 9 settembre del 2007.
Insomma, chi passa da New York è avvisato...
venerdì 2 febbraio 2007
Picciotti della rive gauche
Sabato scorso ho tenuto uno stage di organetto a Roma, tra gli allievi c’era Marcello, il più bravo organettista della Sicilia occidentale. Perché nella Sicilia occidentale, l’organetto, lo suona solo lui.
L’ispirazione artistica bazzica nella sua famiglia: suo fratello è un noto romanziere. Marcello con l’organetto è bravo veramente. Nato per sbaglio a due passi dalla Vucciria, la sua indole è invece transalpina nei modi e nel repertorio organettistico: ti distrai un attimo e lui ti sgrana valzer francesi che è una bellezza, mazurche e scottische di Norbert Pignol (di cui ha anche frequentato uno stage). Si occupa di cinema e, come poteva essere altrimenti, adora i registi francesi della nouvelle vague.
Appena tornato in Trinacria nella sua solitudine organettistica mi ha scritto queste parole che pubblico sul blog affinché rimangano come un bel ricordo e soprattutto mi dispensino quel po’ di autostima in più che alle volte fa sempre comodo.
Ciao Gianni,
Mi ha fatto piacere conoscerti e spero di riincontrarti presto. Mi ha fatto piacere perchè è bello incontrare qualcuno che suona il tuo stesso strumento e che non si trovi a distanza di anni luce nel modo di vedere "le cose" non solo musicali.
E mi ha fatto piacere perchè non sono tante le persone che tirano fuori dall'organetto generi e stili così diversi dal solito.
A presto,
Marcello
L’ispirazione artistica bazzica nella sua famiglia: suo fratello è un noto romanziere. Marcello con l’organetto è bravo veramente. Nato per sbaglio a due passi dalla Vucciria, la sua indole è invece transalpina nei modi e nel repertorio organettistico: ti distrai un attimo e lui ti sgrana valzer francesi che è una bellezza, mazurche e scottische di Norbert Pignol (di cui ha anche frequentato uno stage). Si occupa di cinema e, come poteva essere altrimenti, adora i registi francesi della nouvelle vague.
Appena tornato in Trinacria nella sua solitudine organettistica mi ha scritto queste parole che pubblico sul blog affinché rimangano come un bel ricordo e soprattutto mi dispensino quel po’ di autostima in più che alle volte fa sempre comodo.
Ciao Gianni,
Mi ha fatto piacere conoscerti e spero di riincontrarti presto. Mi ha fatto piacere perchè è bello incontrare qualcuno che suona il tuo stesso strumento e che non si trovi a distanza di anni luce nel modo di vedere "le cose" non solo musicali.
E mi ha fatto piacere perchè non sono tante le persone che tirano fuori dall'organetto generi e stili così diversi dal solito.
A presto,
Marcello
giovedì 1 febbraio 2007
Castagnari, una storia da raccontare
Il signore qui a fianco è Massimo Castagnari, uno che gli organetti li sa fare (...sì, questa è una delle sue tipiche facce). E' un amico e una brava persona, anche se quando gliene ordino uno me lo fa aspettare una vita!
Recentemente ho trovato il modo di coniugare la professione di giornalista con quella di musicista, scrivendo un articolo sui Castagnari, uscito su Liberazione del 26 novembre 2007. Lo riporto qui di seguito.
Castagnari, la “slow music” di Recanati
Storia, lenta, di una famiglia di costruttori di fisarmoniche
Di Gianni Ventola Danese
“Chiedo umilmente perdono, la vostra fisarmonica la suonerò anche in Paradiso. Con affetto. Tony Allasia”. Mi aveva colpito quel foglio ingiallito, quella calligrafia d’altri tempi, il luogo e la data: New York, 1920. Chiedere perdono, e per che cosa? Solo dopo ho scoperto la storia che ancora intatta viveva dietro quelle ingenue parole d’altri tempi. Era una storia di globalizzazione che poteva essere, e non è stata.
Tuttavia la globalizzazione che c’era agli inizi del Novecento è la stessa che c’è ora. Almeno per la famiglia Castagnari. Perché le loro fisarmoniche, o meglio gli organetti, quelle minute e magiche scatole musicali che solo loro sanno fare con quel suono, loro le mandano a suonare in giro per il mondo da quasi un secolo. Con lentezza inesorabile il meccanismo meraviglioso prende forma attraverso gesti, sospiri, silenzi. Il ritmo di produzione non è quello delle fabbriche. La lentezza, come per Kundera, qui è un valore assoluto. Si lavora solo su ordinazione. Così nel 1920 per fare una fisarmonica ci volevano ben quattro mesi, mentre oggi, nell’era di Internet, dell’automazione e delle nuove tecnologie, Sandro, con cortesia e uno spiccato accento marchigiano te lo dice senza esitazioni “qui ci vogliono almeno quattro mesi, te lo dico subito! Come quando c’era Giacomo, non è cambiato nulla”.
Il nonno Giacomo, è stato lui il mitico fondatore della ditta, nel 1914. Aveva iniziato costruendo armoniche insieme a Ida, sua moglie. Poi l’attività passa nelle mani di Mario, il terzo di cinque figli.
Non sono anni facili, ma le fisarmoniche fatte bene si vendono, forse perché l’Europa cerca di coprire con la musica i mormorii mortiferi che preparano le due grandi guerre. In un clima generale di povertà e analfabetismo, la famiglia Castagnari è piuttosto benestante: i ragazzi possono frequentare le scuole, una delle figlie si diploma maestra e Mario viene avviato allo studio della musica e della fisarmonica sotto la guida del maestro Giovanni Guzzini. Ci sa fare, Mario. Si usa ancora fare la serenata alle ragazze e lui si presta volentieri ad accompagnare con la fisarmonica i suoi compaesani. Ancora gira la voce che mezza Recanati si sia sposata grazie alle sue serenate.
Chi l’avrà suonata la serenata per Mario? Nessuno sa darmi una risposta… Giacinta diventa sua moglie nel 1948. Nascono quattro figli.
Il dopoguerra porta il boogie woogie, il rock’n roll, e poi quei bischeri dei Beatles. Arrivano tempi difficili in cui la fisarmonica da una parte sembra diventare uno strumento per pochi virtuosi e dall’altra, insieme all’organetto, viene identificata con la musica “minore”. Per restare a galla Mario progetta claviette e pianole, che si affiancano alle fisarmoniche sugli scaffali della bottega, e inizia a pensare a dei nuovi organetti a due e tre file.
Poi arriva quel giorno in cui bussa alla porta uno strano tipo coi baffi: è Marc Perrone, il grande suonatore francese di organetto. Anche se di origini italiane, è cocciuto come un francese. Vuole delle modifiche sugli strumenti, li vuole fatti in una certa maniera, vuole fare cose che prima non si facevano. Mario è una mente fertile, quella nuova ventata di creatività lo stimola a inventare, a lavorare e a provare fino a tarda notte, fino a quando quella parlata francese buffa e tranquilla non si esprime in un: ”Bravò Mariò! Mi sembra che ora vada bene”. Marc e Mario diventano amici sinceri e iniziano la loro collaborazione.
Dalla Francia piovono le richieste, l’organetto riprende vita, ritorna a suonare in tutta Europa, non solo in Francia. L’organetto è diventato uno strumento di punta della word music, raffinato strumento di sperimentazione. Oggi tutti i più importanti organettisti del mondo hanno tra le mani un Castagnari, tutti fatti a Recanati. E tutto senza pubblicità, marketing, strategie di mercato.
La fabbrica è anche casa. Non c’è separazione. Bussano in molti a quella piccola porta in via Risorgimento, e una volta aperta si apre un mondo. Non ti aspettare la catena di montaggio, qui la storia scorre tra le lime e le pialle a mano, perché anche il minimo gesto non è casuale, no, è figlio del lavoro e dell’impegno di generazioni. Mario se n’è andato nel 2004. Era amico di tutti, sempre pronto a parlare di tutto, ad ascoltare e a confrontarsi; la sua casa, come ora, era sempre aperta.
Ogni strumento ha dentro una storia, ed è una storia d’amore. E l’amore a volte fa fare cose strane come quella volta che Mario rifiutò più volte l’ordine di una fisarmonica. Accadde all’inizio degli anni Ottanta: costruì un organetto a otto bassi personalizzato per un suonatore ciociaro che, dopo pochi mesi, non contento della timbrica, lo fece prima modificare più volte da altri artigiani e poi lo vendette. Tempo dopo tornò alla porta di Mario per ordinare un nuovo strumento. Mario lo accolse con la sua proverbiale cortesia ed affabilità ma, nonostante il ciociaro si profuse in mille scuse per non aver saputo apprezzare lo strumento precedente e si fosse dichiarato disposto a pagare qualsiasi cifra un nuovo organetto, con la stessa affabilità e cortesia Mario gli rispose che riteneva impossibile fare uno strumento migliore del precedente. Il suonatore ciociaro rilanciò, offrì il doppio della cifra, ma non ci fu nulla da fare.
Sandro finisce il racconto e qualcuno bussa alla porta. Entra un signore esile dallo sguardo dolce. È Hector Ulisses Passerella, uno tra i più noti e virtuosi bandoneonisti argentini. Vive in Italia, proprio a Recanati. È lui che suona nella colonna sonora de Il Postino, l’ultimo film interpretato da Massimo Troisi. Porta in braccio il suo bandoneon, lo deve consegnare nelle mani di Sandro per una riparazione. Si ferma anche lui di fronte a quella strana lettera appesa nel laboratorio. “Chiedo umilmente perdono”. Sorride e passa oltre.
Era il 1920, in quell’anno viene combattuta l’ultima grande battaglia di cavalleria della storia, tra sovietici e polacchi. E intanto le fisarmoniche del capostipite Giacomo iniziano a varcare l’oceano. C’è un cliente a new York che ne ha sentito parlare un gran bene, ne ordina una, la paga e si mette ad aspettare. Incomincia a fare la spola tra casa sua e la banchina del porto, aspetta di vedere sbarcare quella cassa proveniente dall’Italia, marchiata Castagnari. Dopo un paio di mesi, non vedendo arrivare la fisarmonica, si sente raggirato. Entra con passo deciso nell’ufficio di polizia e sporge denuncia. Una denuncia che varca l’oceano e arriva a Recanati per mano di un carabiniere incredulo un mese dopo: “Signor Giacomo, che ha combinato? Perché non manda ‘sta fisarmonica in America?”. Quando il maggiordomo di Beethoven chiese con stupore perché la sonata opera 111 avesse solo due movimenti il compositore tedesco rispose “perché avevo finito l’inchiostro”. Forse suonò alla stessa maniera la risposta di Giacomo: “perché non l’ho ancora finita”. La terminò di costruire dopo quattro mesi, come suo solito. Portò personalmente la cassa alla dogana e la vide partire per New York. Della denuncia non ne seppe più nulla, ma sei mesi dopo arrivò quella lettera che ancora oggi ricorda a tutti che oggi come allora può esistere una globalizzazione che non è fatta dai mercati e dalle multinazionali, ma semplicemente dall’amore per il proprio lavoro e dall’onore delle persone.
“Chiedo umilmente perdono, la vostra fisarmonica la suonerò anche in Paradiso. Con affetto. Tony Allasia. New York. 6 dicembre 1920”.
Recentemente ho trovato il modo di coniugare la professione di giornalista con quella di musicista, scrivendo un articolo sui Castagnari, uscito su Liberazione del 26 novembre 2007. Lo riporto qui di seguito.
Castagnari, la “slow music” di Recanati
Storia, lenta, di una famiglia di costruttori di fisarmoniche
Di Gianni Ventola Danese
“Chiedo umilmente perdono, la vostra fisarmonica la suonerò anche in Paradiso. Con affetto. Tony Allasia”. Mi aveva colpito quel foglio ingiallito, quella calligrafia d’altri tempi, il luogo e la data: New York, 1920. Chiedere perdono, e per che cosa? Solo dopo ho scoperto la storia che ancora intatta viveva dietro quelle ingenue parole d’altri tempi. Era una storia di globalizzazione che poteva essere, e non è stata.
Tuttavia la globalizzazione che c’era agli inizi del Novecento è la stessa che c’è ora. Almeno per la famiglia Castagnari. Perché le loro fisarmoniche, o meglio gli organetti, quelle minute e magiche scatole musicali che solo loro sanno fare con quel suono, loro le mandano a suonare in giro per il mondo da quasi un secolo. Con lentezza inesorabile il meccanismo meraviglioso prende forma attraverso gesti, sospiri, silenzi. Il ritmo di produzione non è quello delle fabbriche. La lentezza, come per Kundera, qui è un valore assoluto. Si lavora solo su ordinazione. Così nel 1920 per fare una fisarmonica ci volevano ben quattro mesi, mentre oggi, nell’era di Internet, dell’automazione e delle nuove tecnologie, Sandro, con cortesia e uno spiccato accento marchigiano te lo dice senza esitazioni “qui ci vogliono almeno quattro mesi, te lo dico subito! Come quando c’era Giacomo, non è cambiato nulla”.
Il nonno Giacomo, è stato lui il mitico fondatore della ditta, nel 1914. Aveva iniziato costruendo armoniche insieme a Ida, sua moglie. Poi l’attività passa nelle mani di Mario, il terzo di cinque figli.
Non sono anni facili, ma le fisarmoniche fatte bene si vendono, forse perché l’Europa cerca di coprire con la musica i mormorii mortiferi che preparano le due grandi guerre. In un clima generale di povertà e analfabetismo, la famiglia Castagnari è piuttosto benestante: i ragazzi possono frequentare le scuole, una delle figlie si diploma maestra e Mario viene avviato allo studio della musica e della fisarmonica sotto la guida del maestro Giovanni Guzzini. Ci sa fare, Mario. Si usa ancora fare la serenata alle ragazze e lui si presta volentieri ad accompagnare con la fisarmonica i suoi compaesani. Ancora gira la voce che mezza Recanati si sia sposata grazie alle sue serenate.
Chi l’avrà suonata la serenata per Mario? Nessuno sa darmi una risposta… Giacinta diventa sua moglie nel 1948. Nascono quattro figli.
Il dopoguerra porta il boogie woogie, il rock’n roll, e poi quei bischeri dei Beatles. Arrivano tempi difficili in cui la fisarmonica da una parte sembra diventare uno strumento per pochi virtuosi e dall’altra, insieme all’organetto, viene identificata con la musica “minore”. Per restare a galla Mario progetta claviette e pianole, che si affiancano alle fisarmoniche sugli scaffali della bottega, e inizia a pensare a dei nuovi organetti a due e tre file.
Poi arriva quel giorno in cui bussa alla porta uno strano tipo coi baffi: è Marc Perrone, il grande suonatore francese di organetto. Anche se di origini italiane, è cocciuto come un francese. Vuole delle modifiche sugli strumenti, li vuole fatti in una certa maniera, vuole fare cose che prima non si facevano. Mario è una mente fertile, quella nuova ventata di creatività lo stimola a inventare, a lavorare e a provare fino a tarda notte, fino a quando quella parlata francese buffa e tranquilla non si esprime in un: ”Bravò Mariò! Mi sembra che ora vada bene”. Marc e Mario diventano amici sinceri e iniziano la loro collaborazione.
Dalla Francia piovono le richieste, l’organetto riprende vita, ritorna a suonare in tutta Europa, non solo in Francia. L’organetto è diventato uno strumento di punta della word music, raffinato strumento di sperimentazione. Oggi tutti i più importanti organettisti del mondo hanno tra le mani un Castagnari, tutti fatti a Recanati. E tutto senza pubblicità, marketing, strategie di mercato.
La fabbrica è anche casa. Non c’è separazione. Bussano in molti a quella piccola porta in via Risorgimento, e una volta aperta si apre un mondo. Non ti aspettare la catena di montaggio, qui la storia scorre tra le lime e le pialle a mano, perché anche il minimo gesto non è casuale, no, è figlio del lavoro e dell’impegno di generazioni. Mario se n’è andato nel 2004. Era amico di tutti, sempre pronto a parlare di tutto, ad ascoltare e a confrontarsi; la sua casa, come ora, era sempre aperta.
Ogni strumento ha dentro una storia, ed è una storia d’amore. E l’amore a volte fa fare cose strane come quella volta che Mario rifiutò più volte l’ordine di una fisarmonica. Accadde all’inizio degli anni Ottanta: costruì un organetto a otto bassi personalizzato per un suonatore ciociaro che, dopo pochi mesi, non contento della timbrica, lo fece prima modificare più volte da altri artigiani e poi lo vendette. Tempo dopo tornò alla porta di Mario per ordinare un nuovo strumento. Mario lo accolse con la sua proverbiale cortesia ed affabilità ma, nonostante il ciociaro si profuse in mille scuse per non aver saputo apprezzare lo strumento precedente e si fosse dichiarato disposto a pagare qualsiasi cifra un nuovo organetto, con la stessa affabilità e cortesia Mario gli rispose che riteneva impossibile fare uno strumento migliore del precedente. Il suonatore ciociaro rilanciò, offrì il doppio della cifra, ma non ci fu nulla da fare.
Sandro finisce il racconto e qualcuno bussa alla porta. Entra un signore esile dallo sguardo dolce. È Hector Ulisses Passerella, uno tra i più noti e virtuosi bandoneonisti argentini. Vive in Italia, proprio a Recanati. È lui che suona nella colonna sonora de Il Postino, l’ultimo film interpretato da Massimo Troisi. Porta in braccio il suo bandoneon, lo deve consegnare nelle mani di Sandro per una riparazione. Si ferma anche lui di fronte a quella strana lettera appesa nel laboratorio. “Chiedo umilmente perdono”. Sorride e passa oltre.
Era il 1920, in quell’anno viene combattuta l’ultima grande battaglia di cavalleria della storia, tra sovietici e polacchi. E intanto le fisarmoniche del capostipite Giacomo iniziano a varcare l’oceano. C’è un cliente a new York che ne ha sentito parlare un gran bene, ne ordina una, la paga e si mette ad aspettare. Incomincia a fare la spola tra casa sua e la banchina del porto, aspetta di vedere sbarcare quella cassa proveniente dall’Italia, marchiata Castagnari. Dopo un paio di mesi, non vedendo arrivare la fisarmonica, si sente raggirato. Entra con passo deciso nell’ufficio di polizia e sporge denuncia. Una denuncia che varca l’oceano e arriva a Recanati per mano di un carabiniere incredulo un mese dopo: “Signor Giacomo, che ha combinato? Perché non manda ‘sta fisarmonica in America?”. Quando il maggiordomo di Beethoven chiese con stupore perché la sonata opera 111 avesse solo due movimenti il compositore tedesco rispose “perché avevo finito l’inchiostro”. Forse suonò alla stessa maniera la risposta di Giacomo: “perché non l’ho ancora finita”. La terminò di costruire dopo quattro mesi, come suo solito. Portò personalmente la cassa alla dogana e la vide partire per New York. Della denuncia non ne seppe più nulla, ma sei mesi dopo arrivò quella lettera che ancora oggi ricorda a tutti che oggi come allora può esistere una globalizzazione che non è fatta dai mercati e dalle multinazionali, ma semplicemente dall’amore per il proprio lavoro e dall’onore delle persone.
“Chiedo umilmente perdono, la vostra fisarmonica la suonerò anche in Paradiso. Con affetto. Tony Allasia. New York. 6 dicembre 1920”.
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