Un rito antichissimo che si perde nella notte dei tempi, si ripete ogni anno, e ha a che fare con la musica popolare. Ho scritto questo articolo per una mostra fotografia sul pellegrinaggio di Vallepietra, nel Lazio. Dopo aver visto le foto, devo assolutamente andarci...
Vallepietra. Storia di un pellegrinaggio eretico
Una mostra fotografica per documentare un misterioso culto del Centroitalia
Di Gianni Ventola Danese
Pubblicato su "Liberazione" del 4/2/2007
Si tramanda in Italia, nei Monti Simbruini ai confini tra Lazio e Abruzzo, un rito, un culto, un pellegrinaggio. È quello dedicato alla cosiddetta “Santissima”, o alle “Treppe” per usare una locuzione radicata nella memoria popolare. Ogni anno, la domenica dopo Pentecoste, sempre a cavallo di una notte di plenilunio, accade qualcosa di straordinario la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Non è ancora chiaro cosa accadde in questo luogo, migliaia di anni fa, chi o cosa si manifestò, quale fu l’origine di un rito arcaico e misterioso, ma una cosa è certa, quel posto c’è ancora ed è rimasto uguale, o quasi, a come lo si poteva vedere migliaia di anni fa. È una parete di roccia che si apre sul fianco meridionale del monte Autore (mt. 1853), vertiginosa, trecento metri di roccia strapiombante che farebbero la felicità di qualsiasi appassionato di free-climbing, alla cui base, lungo una sottile cengia, si trovano alcune piccole grotte. Ciò che si venera si trova in uno di quegli antri.
All’inizio non sembra una grotta. Ciò che si vede è soltanto la piccola facciata di una modesta chiesetta, un santuario, il cui corpo affonda nella roccia bianca della parete. Ma l’interno di quella minuscola cattedrale engloutie è la nuda roccia della montagna. Qui appare un affresco antichissimo, dipinto intorno al 1150 d.C, raffigurante una Santissima Trinità molto particolare, perché composta da tre figure identiche, sedute e benedicenti alla maniera greca.
Sono 30mila i pellegrini che in quella notte di plenilunio si recano a rendere omaggio a questa icona eretica. Perché di questo si tratta. La Chiesa ufficiale non ha mai riconosciuto il rito, né l’immagine sacra della Trinità di Vallepietra così distante da quella ufficiale. La Chiesa, piuttosto, si è sempre limitata ad assecondare e in qualche modo a gestire quello che ancora oggi si presenta come il più grande pellegrinaggio eretico d’Italia.
Un pellegrinaggio che è cambiato nella storia e che soprattutto è ora documentato attraverso una lunga serie di scatti esposti fino al 18 febbraio presso L’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero per i beni e le Attività Culturali, presso la suggestiva Chiesa delle Zitelle, in Via di San Michele a Ripa 18 (www.fedetradizione.it). Fotografie dal 1881 al 2006 che rappresentano non solo un prezioso lavoro di antropologia culturale a disposizione della comunità scientifica, ma anche una testimonianza visiva che in qualche modo interpreta e cerca di trovare il senso profondo di un evento che si ripete nei secoli.
Protagoniste dell’evento sono le compagnie dei pellegrini, gruppi assolutamente indipendenti dalla Chiesa (al contrario delle confraternite) che in completa autonomia si mobilitano per il rito. Le compagnie di pellegrini arrivano: dal Lazio, dagli Abruzzi, dal Molise, dalla Campania, la domenica dopo Pentecoste per la festa della Santissima Trinità e per quella di Sant’Anna (26 luglio), coi loro stendardi, le provviste per passare la notte, i sacchi a pelo, le coperte, donne, bambini, intere famiglie, le generazioni si intersecano come si sovrappongono i canti devozionali che ogni compagnia intona in precisi momenti del rito. Ed proprio questo uno degli aspetti più simbolici del pellegrinaggio la cui dimensione rituale, completamente autonoma, ha dato vita a una serie di rituali paraliturgici assai eterogenei. Ogni compagnia ha i suoi strumenti (come ad esempio le trombe della compagnia di Anagni), lo stesso canto può essere variato, modificato, le compagnie si competono il primato per fare emergere il proprio canto e il panorama sonoro che ne scaturisce è impressionante, quasi a ricordare le composizioni corali di Ligeti: pura esperienza mistica.
La festa è un culto notturno. All’imbrunire la montagna si accende di centinaia di fuochi, i pellegrini bivaccano, pregano, cantano, suonano i tipici strumenti della tradizione popolare: la zampogna, la fisarmonica, i fiati. Gli stretti e ripidi sentieri traboccano di anime. Molti rimangono giù a valle, si fermano nella chiesa parrocchiale di Vallepietra. Anche per le vie del paese si fa festa. La vigilia è suggellata da una processione e le vie del paese diventano dormitorio a cielo aperto per coloro che riprenderanno il cammino solo l’indomani.
Una volta raggiunto il santuario le compagnie, che si fanno distinguere per un fazzoletto che portano al collo, si ordinano sotto i loro vessilli, ed è ora che il canto si fa più forte, come un’onda monta e sommerge ogni cosa. Il transito davanti all’immagine sacra si fa a piedi scalzi, nudi, alcuni in ginocchio. Non vi è più contatto con la liturgia ufficiale, e la ritualità assume forme arcaiche che spesso hanno irritato le gerarchie ecclesiastiche. Tra questi comportamenti sopravvivono le richieste di grazia in forma radicale, a suon di insulti verso il santo, tra accessi isterici e spasmi.
Viva Viva sempre Viva / Quelle Tre Person Divine / Quelle Tre Person Divine / La Santissima Trinità. Questo il ritornello che si ripete in risposta a ogni strofa, come un mantra ipnotico ti entra dentro e ti accompagna per giorni e giorni. Perché? Perché anche chi non crede si emoziona fino alle lacrime? Perché accade tutto questo? Il rito termina con la rappresentazione della Passione di Cristo, detto il Pianto delle Zitelle, le giovani ragazze di Vallepietra, si tramandano il ruolo di generazione in generazione. Ma la carica di zitella si può ottenere anche per le doti vocali. Indossano tutte una veste bianca tranne una, la madonna, e intonano brevi arie dette misteri e, all’unisono a gruppi di tre, frammenti volgarizzati del Miserere.
Fede e tradizione si fondono, si sovrappongono, ciò che si faceva per fede ora forse lo si fa solo per tradizione, ma per molti l’itinerario è inverso. Come afferma Paola Elisabetta Simeoni, curatrice della mostra insieme al fotografo Angelo Palma, “le origini di questo rito si perdono a oriente, nei culti dedicati a Iside e Osiride, forse addirittura in un rito semitico. Ci sono tutti gli elementi di un rito antichissimo, la triade, la percezione femminile, il culto verso una Grande Madre Terra, aspetti legati ai culti della vegetazione e dei defunti”.
Ma basta un secolo e mezzo di testimonianze fotografiche per capire come cambia nella storia un rito così antico. Molte di questi scatti sono inediti. Quelli di Cesare Pascarella, rinvenuti in un Fondo custodito dall’Accademia dei Lincei. Quelli di Emilio Cecchi, critico letterario fondatore della “Ronda”, pubblicati solo nel 1934. E poi ci sono le foto di Luciano Morpurgo, già note ma solo nell’ambito della ricerca etnografica, e quelle provenienti dall’Archivio del Club Alpino Romano, datate fine Ottocento e anch’esse inedite.
Infine, una sezione consistente è quella ripresa dal fotografo Angelo Palma. Sono fotografie recenti che vanno dal 2003 al 2006. Emerge da questi scatti anche l’aspetto meno spirituale del pellegrinaggio, fatto di centinaia di bancarelle, venditori ambulanti, comitive di boyscout, souvenir, il canto delle Zitelle trasformato in musical. “Vendono di tutto, c’è un grande business intorno all’evento, ci puoi trovare anche la bancarella che vende i busti di Mussolini e il vino etichettato Dux”, – afferma il fotografo Angelo Palma, ma poi aggiunge,- “mi fermai una volta chiedendo come andassero le vendite del vino mussoliniano, niente da fare, mi rispose il mercante, qui si vende solo il vino di Che Guevara, sono tutti comunisti!”.
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